3.
IL VELENO DEL DUBBIO
Sandra
Dovetti accompagnare Karin a ginnastica con il fuoristrada. La chiamavamo così per non chiamarla riabilitazione. La palestra era in centro, nella strada principale, dove era impossibile parcheggiare, perciò la lasciavo all’ingresso e andavo a farmi un giro in cerca di un posto. Dopo un’ora tornavo a riprenderla, chiedendomi quanto mi avrebbero pagato per quel servizio e pensando che Fred sarebbe stato contento di sentirsi sollevato da quell’onere. Oltre alla ginnastica, c’erano le visite mediche e la spesa al centro commerciale. A Karin piaceva anche andare per mercatini, cercare oggetti antichi, andare dal parrucchiere e fare passeggiate sul lungomare, se non si poteva andare in spiaggia. Amava parlare della sua infanzia nella fattoria norvegese, della straordinaria bellezza di sua madre, della bellezza virile di suo padre e della bellezza sua e dei suoi fratelli. Della bellezza del salmone che mangiavano per cena e della bellezza delle luci di notte. Quando si stancava, mi faceva domande sulla mia vita perché non sopportava il silenzio. Io caddi nelle sue grinfie: nei giorni passati a casa sua finii per abituarmi a lei, e Karin non doveva fare niente di speciale perché cercassi di accontentarla in tutti i modi.
Chissà cosa le sarebbe venuta voglia di fare quel giorno. La lasciai all’ingresso della palestra, misi in moto e non appena ebbi girato l’angolo un uomo si tolse il cappello per salutarmi. Riconobbi Julián, quello che voleva affittare la casa di mia sorella. Gli feci un cenno con la mano, ma lui si avvicinò al fuoristrada.
«Posso salire?» disse aprendo la portiera.
Mi chiese se avevo voglia di un frullato. Aveva scoperto un posto al Faro dove lo facevano con la frutta fresca. Che ne pensavo? Me la sentivo di andare con lui? Gli dissi che sarei dovuta essere di ritorno entro un’ora e mi bastò dirlo perché suonasse strano, come se non fossi più io, quella che arrivava sempre in ritardo. In quel momento mi resi conto che non sarei riuscita a sopportare lo sguardo di rimprovero di Karin per averla fatta aspettare.
Ci mettemmo in cammino. Non sospettavo che a partire da quel momento Villa Sol non sarebbe stata mai più la stessa. Era come se all’improvviso si fosse alzato il sipario di un teatro e finalmente ci fosse una storia. Non lo capii subito, all’inizio non volevo capire, mi spaventai. Julián era serio. Aveva la fronte aggrottata e lo sguardo triste. Tirò fuori un ritaglio di giornale dalla tasca, forse l’annuncio di un’altra casa in vendita.
«E sua moglie? Non la vedo mai», dissi avvertendo una sgradevole tensione nell’aria.
«Mia moglie è morta, non è mai stata qui.»
In quel momento pensai che subito dopo essere scesi dall’auto me lo sarei tolto di torno con un calcio nelle palle. Una sola spinta, pensai, avrebbe potuto buttarlo a terra, e ci avrebbe messo così tanto a rialzarsi che avrei potuto correre per chilometri.
«Mi spiace di averti mentito», continuò, «ma è stato meglio così.»
«Non ti capisco», replicai sentendo i suoi occhi su di me e dandogli del tu, come lui faceva con me. Non spostavo lo sguardo dalla strada.
«Non avrei mai voluto coinvolgerti, te lo giuro, ma quando ti ho conosciuta eri già coinvolta.»
Coinvolta? E in cosa potevo essere coinvolta io, che passavo la vita fra le piante del giardino e gli anziani?
«Credo sia mio dovere dirti in che situazione ti trovi.»
Non mi piaceva affatto che qualcuno cercasse di manipolarmi o si prendesse gioco di me, per cui alzai la voce più del dovuto.
«So già qual è la mia situazione!»
«No, non lo sai», obiettò lui mentre parcheggiavo.
Con il ritaglio di giornale in mano mi condusse a una panchina di pietra da cui si vedeva il mare.
«Come si comportano con te Fredrik e Karin?»
«Fred e Karin?»
«La coppia di anziani norvegesi.»
Non avevo la minima idea di dove volesse andare a parare quando gli risposi che si comportavano bene, che erano gentili, che sapevano rispettare i miei spazi, come facevo io con i loro. La storia dello spazio lo fece vagamente sorridere. Non mi piacque che ridesse di quel che dicevo, mi fece innervosire.
«Non avrei mai voluto farti vedere questo», disse mostrandomi il foglio di giornale.
Sulla pagina c’era una foto, la foto di una coppia. In quel momento vidi solo quello perché mi ero fissata sul suo sorriso ironico e non mi importava nient’altro.
«Guardala bene, per favore. Non li riconosci?»
«Non so cosa ci sia di così divertente nel fatto che rispettino i miei spazi.»
«È una frase fatta, non ti si addice.»
Presi il ritaglio e fissai la foto. Erano... erano Fred e Karin. Mi concentrai per osservarla meglio.
«Sì, sono loro», riprese Julián. «Nazisti, criminali pericolosi. Fredrik Christensen ha eliminato centinaia di ebrei. Capisci quello che sto dicendo?»
Rimasi perplessa. Non sapevo cosa pensare.
«Ne sei sicuro?»
«Sono venuto qui per lui. Non voglio che lasci questo mondo senza aver riconosciuto le sue colpe, senza pagare per quello che ha fatto. Forse è l’unico a essere ancora vivo.»
«Perché lo dici a me? Perché non lo dici alla polizia?»
«Quando sono arrivato qui pensavo proprio questo: volevo rendere pubblica la sua storia e rovinargli la vita, ma sarebbe stata solo una piccola vendetta. Adesso penso che potrebbero condurmi ad altre persone. Tu entri ed esci dalla loro casa, non sospettano di te. Se non fossi incinta, se non avessi l’età per essere mia nipote e se io non mi sentissi un verme a domandartelo, ti chiederei di dirmi cosa vedi lì.»
«Non ho visto nulla di speciale, e poi... sono miei amici.»
«Tuoi amici? Te l’ho già detto, non voglio che tu corra alcun pericolo, ma questo pensiero toglitelo dalla testa: loro non sono amici di nessuno, sono vampiri che si nutrono del sangue altrui. E il tuo sangue li attira, è la loro linfa. Stai attenta. »
Non prendemmo il frullato. Julián sapeva molto bene dove andare senza che nessuno ci vedesse. Sembravamo la tipica coppia formata da un vecchio e una ragazza che si infratta fra gli alberi. Avevo già il numero dell’hotel Costa Azul in cui alloggiava, nel caso avessi voluto mettermi in contatto con lui, ma mi disse che non sarei dovuta andarci per nessun motivo, perché era sotto sorveglianza ed era pericoloso. La cosa più sensata sarebbe stata sparire dalla vita dei Christensen e dalla sua e tornare alla mia vita di sempre. Mi pregò di non cadere nella tentazione di raccontare qualcosa ai miei amici nazisti, di trattenermi dal farlo, se non volevo pentirmene.
«Tieni», disse dandomi la pagina di giornale, «guardali con attenzione.»
La piegai e me la misi in tasca.
Cosa sapevo io di Julián? Niente di niente. Era apparso un giorno a casa mia e adesso mi diceva quelle cose così strane. Avrei potuto credergli perché i nazisti erano esistiti e tutti sapevano dell’esistenza dei neonazisti, gente fissata con la svastica e cose del genere, ma Fred e Karin? Li conoscevo, Karin mi metteva un cuscino dietro la schiena quando mi sedevo sulla mia poltrona preferita. Era alta, aveva le orecchie e il poggiapiedi. Me la sistemavano accanto al camino anche se era spento, però quando lo accendevano era molto piacevole. Fred non parlava molto, quando c’era si limitava a uscire per comprare i pasticcini e a servirci il tè: era Karin che si faceva carico del gruppo. Lei mi stava insegnando a lavorare a maglia e a volte Fred riceveva qualche visita e restava un bel po’ a parlare con i suoi ospiti. Cosa c’era di strano in tutto questo? Julián mi aveva instillato il veleno del dubbio. Aveva appena finito di raccontarmi cose terribili sul conto dei miei amici. Mi aveva detto che l’infermiera Karin era una criminale senza scrupoli, che aveva contribuito a uccidere centinaia di persone per mettersi in luce accanto a suo marito, decorato dal Führer in persona. «Hai idea di quanto devi uccidere per meritarti una croce d’oro? » Mi aveva obbligato a dubitare di Fred e Karin e a dubitare di lui. Non era più il vecchio bonario con il cappello bianco che parlava sempre di sua moglie: ora non sapevo più chi fosse. Poteva darsi che sua moglie fosse esistita davvero, oppure no. Poteva darsi che non volesse nemmeno affittare la casa. Non mi piaceva che si fosse preso gioco di me. Almeno i norvegesi non avevano mentito. Forse non mi avevano detto la verità, e in effetti non mi avevano raccontato la loro vita - il che, trattandosi di ultraottantenni, non era affatto normale -, ma in quel momento le informazioni che avevo sul loro conto erano esclusivamente frutto di ciò che avevo visto e sentito e delle mie conclusioni.
Decisi di non discutere con lui. La cosa più sensata sarebbe stata non chiedere e non sapere altro, accompagnare in paese quello strano personaggio e, una volta arrivata lì, tornare da Karin.
Ma se fosse stata la verità? Anche se avessi deciso di lasciare casa loro, sarei comunque dovuta tornare un’ultima volta. Sarebbe sembrato molto strano non farlo e lasciare lì i pochi vestiti che mi ero portata dietro, le pastiglie di calcio, le creme per le smagliature e tutto il resto. Loro si sarebbero preoccupati e sarebbero scesi a cercarmi, si sarebbero fatti molte domande e la situazione sarebbe andata di male in peggio. Neanch’io sarei stata contenta: non sarei riuscita a dormire bene quella notte. E a essere sincera, dovevo riconoscere che la curiosità mi stava divorando. Se fossi uscita da quella storia, come suggeriva Julián, se non fossi tornata a Villa Sol e fossi sparita, mi sarei pentita perché sarei rimasta all’oscuro di tutto. La vita o il destino mi avevano messo su quella strada piena di curve ed era meno complicato andare avanti che fare marcia indietro.
Come temevo, quando arrivai in palestra Karin mi stava aspettando imbronciata.
Mi scusai dicendole che ero rimasta senza benzina, e quando tornammo a Villa Sol salii in camera e nascosi il ritaglio di giornale in fondo al borsone nel quale avevo trasportato i miei vestiti.